612 Visite totali, nessuna visita odierna
Month: Dicembre 2013
Museo dei 7 Fratelli Cervi a Gattatico, 22.12.2013
676 Visite totali, nessuna visita odierna
Germania, la locomotiva a due velocità, di Jacopo Rosatelli
Se è vero che l’economia della Repubblica federale gira molto di più di quella di tanti altri paesi, è altrettanto certo che non è tutto oro quel che luccica. Se n’è avuta un’ulteriore conferma ieri: una delle principali organizzazioni tedesche del «privato sociale», il Paritätischer Gesamtverband, ha presentato il suo annuale «Rapporto sulla povertà», da cui si ricava un’immagine della «locomotiva d’Europa» tutt’altro che esemplare. I numeri, infatti, dicono che il disagio sociale continua ad aumentare anche da quelle parti.
Nella ricca Germania contemporanea esiste un 15,2% della popolazione che si trova in condizioni di povertà.
È una cifra — record negli ultimi 10 anni — che comprende tutte le persone che, vivendo da sole, guadagnano meno di 869 euro al mese, o le famiglie di quattro componenti (con due bambini sotto i 14 anni) che dispongono di meno di 1.800 euro mensili.
A crescere è anche il divario tra le regioni. Mentre nei Länder meridionali tradizionalmente più benestanti, e cioè la Baviera e il Baden-Württemberg, la quota di poveri è in lieve diminuzione (si attesta all’11%), piove sul bagnato nelle zone più svantaggiate, che corrispondono — con l’eccezione della città–Land di Brema, prima nella triste classifica dell’indigenza — alla Germania orientale.
L’ex Repubblica democratica tedesca (Ddr), nonostante gli innegabili progressi dalla riunificazione, resta un’area di malessere: si annoverano oltre il 20% di poveri in Meclemburgo (regione d’origine della cancelliera Angela Merkel), a Berlino e nella Sassonia-Anhalt (il Land di Magdeburgo).
Si tratta di territori dove — non a caso — l’estrema destra raccoglie il massimo dei suoi consensi: la Npd (su cui da un paio di settimane pende una richiesta di messa fuorilegge) alle ultime regionali ha ottenuto il 6% in Meclemburgo e il 4,6% in Sassonia-Anhalt, e nei quartieri economicamente depressi di Berlino est, come Lichtenberg e Marzahn, supera il 5% insieme alla lista xenofoba Pro Deutschland.
Un arcipelago, quello neonazista, che resta minaccioso, come dimostrato dalle numerose manifestazioni anti-immigrati organizzate durante la campagna elettorale degli scorsi mesi di agosto e settembre.
L’organizzazione che ieri ha presentato il rapporto chiede al governo di sostenere i comuni delle aree più disagiate e di investire in un pacchetto di misure per combattere la povertà: impegni che, sulla carta, figurano nel programma del neonato esecutivo di grosse Koalition fra democristiani (Cdu-Csu) e socialdemocratici (Spd). Dove manca, però, quella tassa patrimoniale che sarebbe servita proprio a reperire risorse utili a tali scopi. Un’imposta che la Spd aveva promesso, come sottolinea in ogni occasione utile la Linke.
La principale forza di opposizione — in un parlamento dominato per tre quarti dalla maggioranza di governo — ha voluto ricordare che proprio ieri cadeva una ricorrenza non felice: il decennale dell’approvazione delle «riforme» conosciute come Hartz IV. Volute dal governo di Gerhard Schröder (una coalizione Spd-Verdi), ma sostenute anche dal centrodestra, quelle misure ridussero le prestazioni dello stato sociale tedesco nei confronti dei disoccupati, al fine di «modernizzare il mercato del lavoro».
Per la Linke non hanno rappresentato altro che «decretare la povertà per legge».
da il manifesto 20 dicembre 2013
710 Visite totali, nessuna visita odierna
Crisi, Confindustria: “Poveri raddoppiati, danni da guerra”. Letta: “Non sfascio conti”
Confindustria fa un bilancio della crisi economica che ha messo in ginocchio l’Italia, facendo luce su uno scenario da brivido. “Le persone a cui manca il lavoro, totalmente o parzialmente, sono 7,3 milioni, due volte la cifra di sei anni fa. E anche i poveri sono raddoppiati a 4,8 milioni”, afferma il centro studi di via dell’Astronomia, sottolineando che “le famiglie hanno tagliato sette settimane di consumi, ossia oltre 5mila euro in media l’anno”. La profonda recessione, la seconda in sei anni, “è finita, ma i suoi effetti no”, aggiunge Confindustria. Parlare di ripresa è infatti “per molti versi improprio” e suona “derisorio“. Il “Paese ha subito un grave arretramento ed è diventato più fragile, anche sul fronte sociale”, con danni “commisurabili solo a quelli di una guerra“.
E se nel Paese si profilano gravi tensioni sociali, è la denuncia degli industriali, la politica non prende le contromisure adeguate. Confindustria parla della legge di stabilità come di “un’occasione mancata”, a causa del minimo impatto sulla crescita e delle risorse giudicate insufficienti per il taglio del cuneo fiscale. E alle frecciate di Confindustria all’indirizzo del governo, risponde direttamente il premier. “Ho la responsabilità di tenere la barca Italia in equilibrio e voglio che ci siano strumenti per la crescita senza sfasciare i conti“, è la prima reazione di Enrico Letta, che parla a margine del vertice Ue. “Confindustria dovrebbe sapere che tenere i conti a posto vuol dire far calar gli spread, come oggi che abbiamo raggiunto il punto più basso in due anni e mezzo”. E difende a spada tratta la manovra: “Credo che gli imprenditori dovrebbero rendersi conto che perché ci sia crescita ci devono essere complessive condizioni: gli interessi bassi è uno di questi, le tasse basse è un’altra, la legge di stabilità comincia a far scendere le tasse, gli ulteriori interventi arriveranno dall’anno prossimo”.
“Rischio cedimento della tenuta sociale”
Nello scenario di uscita dalla crisi, per l’Italia “il pericolo maggiore è il cedimento della tenuta sociale, con il montare della protesta che si incanali verso rappresentanze che predicano la violazione delle regole e la sovversione delle istituzioni”, aggiunge il rapporto, precisando che “il destino dell’Italia si ripete con il coagularsi di importanti gruppi politici anti-sistema“. Il bilancio sul fronte del lavoro è drammatico. Dall’inizio della crisi (fine 2007) si sono persi 1 milione e 810 mila Ula (Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno). L’occupazione è rimasta ferma nella seconda metà del 2013 e ripartirà dal 2014. Rivisto in leggero rialzo il tasso di disoccupazione del 2013, dal 12,1% stimato a settembre al 12,2%, ma resta stabile oltre il 12% anche nel 2014 (12,3%) e nel 2015 (12,2%).
Gli imprenditori attaccano il governo sulla legge di Stabilità
Confindustria affronta poi il tema della legge di Stabilità, sottolineando che l’impatto della manovra sulla crescita sarà “molto piccolo“, dello “0,1 o 0,2? punti sul Pil del 2014. Poi, nel 2015 la manovra avrà “un effetto restrittivo della stessa entità di quello espansivo del 2014?. Il centro studi prevede “traiettorie economiche ad alta incertezza”, e affianca così alle previsioni sugli scenari economici anche “una simulazione che ingloba una evoluzione meno benigna”, nella quale “la debolezza dell’economia impone una manovra da un punto di Pil per rispettare gli impegni europei”. In questo scenario B, “il credit crunch (ovvero la stretta sul credito, ndr) si protrae nel 2015, l’aumento del commercio mondiale è più contenuto, lo spread non si restringe”; ed “il risultato è che l’Italia si blocca nuovamente”.
La delusione è tale che il rapporto di Confindustria parla di “una occasione mancata“. Complessivamente la manovra è infatti “un intervento modesto sul 2014 che ritocca marginalmente il deficit: in termini di Pil si tratta di qualche decimale (0,2%). E per il 2015 e 2016 la correzione del disavanzo coincide sostanzialmente con le dimensioni delle clausole di salvaguardia. L’intervento principale proposto è quello sul cuneo fiscale, ma le risorse stanziate non sono in grado di incidere significativamente”.
“Bruciati 3.500 euro di reddito per abitante”
Riviste al ribasso le stime del Pil per il 2013 rispetto alle previsioni di settembre: il Prodotto interno lordo segnerà -1,8% rispetto alla precedente previsione di -1,6 per cento. Confermata, invece, la stima per il 2014 (+0,7%). Nel 2015, il Pil segnerà +1,2 per cento.
Per quanto riguarda il deficit, invece, è stimata una riduzione del rapporto con il Pil per il 2014 ed il 2015 rispettivamente al 2,7% e al 2,4% (dopo il 3% nel 2012 e nel 2013). Un deficit per i prossimi due anni però “sensibilmente più elevato di quanto indicato dal governo”. Il debito pubblico è infine previsto salire al 132,6% del Pil nel 2013 al lordo dei sostegni ai fondi di stabilità europei (129,0% al netto di questi esborsi) e al 133,7% nel 2014 (129,8% al netto), secondo le stime del Centro studi di Confindustria. Inizierà a calare nel 2015 quando sarà al 132,0% del Pil (128,2% al netto dei sostegni). La stima include 0,5 punti di Pil di privatizzazioni e dismissioni immobiliari per il 2014 e il 2015, come indicato dal governo nella nota di aggiornamento al Def.
“Rispetto alle traiettorie già modeste del decennio 1997-2007 il livello del Pil potenziale è oggi dopo sei anni di crisi più basso del 12,6%”, indica il centro studi di Confindustria, che calcola: “In altre parole sono andati bruciati oltre 200 miliardi di euro di reddito a prezzi 2013, quasi 3.500 euro per abitante”. E “solo con incisive riforme strutturali si può recuperare il terreno perduto”.
Istat: “Crescita retribuzioni torna a minimi da 1992?
E anche l’Istat pubblica dati tutt’altro che rassicuranti sui salari. A novembre le retribuzioni contrattuali orarie restano ferme su ottobre mentre salgono solo dell’1,3% nel confronto con lo scorso anno. La crescita annua torna così a toccare i minimi. Il rialzo dell’1,3%, già registrato in passato, risulta infatti il più basso almeno dal 1992, ovvero da 21 anni. Complessivamente, nei primi 11 mesi del 2013 la retribuzione oraria media è cresciuta dell’1,4% rispetto al corrispondente periodo del 2012. Alla fine di novembre 2013 i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica riguardano il 51,1% degli occupati dipendenti e corrispondono al 49,4,% del monte retributivo osservato.
da Il Fatto Quotidiano | 19 dicembre 2013
594 Visite totali, nessuna visita odierna
Appunti in libertà
Certo. Ma se sono vere le cose che da tempo diciamo sugli effetti della crisi, sulle trasformazioni (e disgregazioni) del mondo del lavoro, sulla chiusura del sistema politico, sulla natura liberista del PD e sulla subalternità dei sindacati maggioritari, se sono vere tutte queste cose, è allora inevitabile che ogni radicale protesta popolare assuma forme ambivalenti e diventi oggetto di una contesa tra destra e sinistra riguardo agli obiettivi ed ai modi dell’azione.
Ed è inevitabile quindi assistere ad un crescere di proteste senza vero e proprio conflitto, di conflitti senza un vero e proprio movimento, di movimenti decisamente segnati dal populismo, ossia dall’illusione del “tutti a casa”, dall’incapacità di individuare gli avversari, dalla tendenza a prendersela con altri poveracci, dalla fascinazione per un capo ed uno stato autoritari.
Sarà certamente questione di gradi, di analisi fattuali, di valutazioni fatte caso per caso, e magari quello del “9 dicembre” risulterà essere un caso particolarmente ambiguo. Ma nessun movimento potrà più essere giudicato “prima”, senza parteciparvi o senza aver tentato di farlo, senza attraversarlo e senza averne separato il buono ed il cattivo: senza aver proposto dall’interno un’altra definizione dei fini e dei mezzi.
D’ora in poi snobbare o contrastare una mobilitazione perché è in odore di populismo significherà snobbare o contrastare qualunque mobilitazione. Tranne quelle sindacali, che però (e non è un caso) latitano, o quelle studentesche, che però (e non è un caso) alla lunga sono inefficaci.Se la sinistra vuol tornare ad essere sinistra e a contare qualcosa deve quindi allontanarsi dall’atteggiamento che oggi sembra prevalere al suo interno. Se vuole essere una soluzione per il Paese deve prima riconoscere di essere, essa stessa, una parte del problema.
Perché la sua componente maggioritaria è da tempo passata al nemico ed è corresponsabile della distruzione neoliberista della democrazia e dello stato sociale (altro che “pericolo di destra”… la destra più pericolosa c’è già ed è già al potere, si chiama “larghe intese”, si chiama “Grosse Koalition”, si chiama PD e sedicente “socialismo europeo”…).
Perché l’alternativa della democrazia partecipata proposta da ciò che resta del movimento altermondialista è debolissima rispetto all’esigenza ormai acuta di trasformare i rapporti di proprietà, e soprattutto è incomprensibile per quella larga parte del popolo che non ha il tempo e le risorse per partecipare ad alcunché. E infine perché la stessa sinistra radicale, forse spaventata dalle conseguenze delle proprie migliori analisi, non riesce ad emanciparsi dalla trappola dell’europeismo (e dell’euro), non riesce a proporre fin da oggi soluzioni neosocialiste in grado di traghettare il Paese fuori dalla subalternità al capitalismo atlantico, non riesce a costruire un discorso “nazionaldemocratico” capace anche di prevenire il diffondersi del nazionalismo di destra, non riesce a svincolarsi dall’idea che l’unica vera lotta popolare sia quella della CGIL, o di movimenti da sempre legati alla sinistra (come il benemerito movimento No Tav).
Bisogna smetterla con esitazioni ed illusioni. Bisogna svegliarsi.
E cominciare magari a porre una buona volta il problema dei problemi: che è quello di rompere l’alleanza tra le frazioni sindacalizzate (e qualificate) del lavoro ed capitalismo europeista, e l’alleanza tra le frazioni più deboli del lavoro ed il capitalismo protezionista, per costruire una vera unità del lavoro subalterno (dipendente o no). Come si può fare? Si può fare concentrando gli sforzi sulla rottura dell’oligopolio dei sindacati maggioritari, senza quindi accodarsi sempre alla Fiom e senza sperare sempre nel rinsavimento della CGIL.
Si può fare costruendo comitati popolari contro la crisi (e quel “partito sociale” di cui spesso ci limitiamo a parlare) capaci di muoversi nel magma dei conflitti attuali.
Si può fare elaborando idee forti, certo (nuovo socialismo, nazionalismo costituzionale e democratico…), ma anche idee apparentemente più prosaiche.
Comprendendo, ad esempio, che la questione fiscale ha cambiato forma, perché se il piccolo evasore degli anni passati difendeva la propria ricchezza sottraendola allo stato sociale, quello di oggi – vista la durezza della crisi e visto il crescente dirottamento del denaro pubblico verso il pagamento del debito – si difende dalla miseria sottraendo denaro alla speculazione.
Non dobbiamo certo fare l’elogio dell’evasione, ma riconoscere che chiedere oggi la normalizzazione fiscale è condannare la gente alla fame. Riconoscere che la durezza delle sanzioni sui “piccoli” è effetto della scelta di non chiedere denaro ai “grandi”.
E riconoscere che se i lavoratori sindacalizzati proponessero, invece della generica lotta all’evasione, una riduzione del carico e delle multe per i “piccoli” ed un deciso aumento della tassazione delle rendite e delle plusvalenze, riuscirebbero finalmente ad attrarre a sé sia le “partite IVA per forza”, ossia gli strati dequalificati del lavoro, sia i lavoratori autonomi di seconda generazione e di alta qualificazione.
E soprattutto incrinerebbero quella loro nefasta alleanza col grande capitale che, riflessa nelle incapacità e nelle colpe della sinistra attuale è, ad oggi, il principale ostacolo ad una soluzione democratica della crisi italiana.
Fb Roberto Tabacchi 17/12/2013
738 Visite totali, 1 visite odierne
Dobbiamo fermare i veri estremisti! Di Domenico Finiguerra
Quante volte, partecipando ad un dibattito sul territorio, su una grande opera, su un piano regolatore, vi è capitato di essere etichettati come dei radicali ambientalisti, degli estremisti, dei sovversivi annidati nei comitati? A me è capitato moltissime volte.
La cosa mi ha sempre dato anche un certo godimento. Aumentava la mia autostima. Essere accusato di essere un sovversivo dai dirigenti del partito del calcestruzzo (sia da quelli di matrice neoliberista che da quelli di matrice progressista) era motivo di grande orgoglio. Cose da raccontare ai nipotini. «Ma smettila di opporti alle autostrade e al Tav! Vuoi farci tornare all’età della pietra? Vuoi muoverti con i cavalli! Estremista e ambientalista del c…!», «Si, adesso siete anche contro l’expo 2015! Ma vergognatevi. Siete dei talebani del verde! Volete farci perdere occasioni di sviluppo, di crescita, di competitività! Irresponsabili», «Ma che problemi vi da questo outlet? Ci sistemano anche tutta la viabilità e ci fanno 7 rotonde. Ah certo! Voi volete andare nei campi a caccia di farfalle, oppure volete tornare a coltivare la terra! Bravo! Oltre ad essere ambientalista sei pure terrone!»(questa me la sono beccata da parte dei dirigenti del partito del cemento della corrente leghista).
Ma poi, con il passare del tempo, questa etichetta ha cominciato a starmi stretta e con mia grande sorpresa mi sono reso conto che in realtà, io e direi anche tutti gli ambientalisti, siamo dei veri ed autentici moderati. Nel senso che siamo impegnati nel moderare il peso dell’uomo sulla terra.
Vorremmo mantenere, difendere o ripristinare i delicati equilibri esistenti tra il genere umano, gli altri esseri viventi e la terra. Terra intesa sia come pianeta che come terra che abbiamo sotto i piedi.
Di converso, quelli che ad ogni assemblea pubblica, consiglio comunale o talkshow televisivo, non perdono occasione per sbeffeggiarci, disegnarci su un albero intenti ad abbracciare un panda oppure additarci all’opinione pubblica come i nemici della patria, hanno perduto la natura e lo smalto di moderati. Approvando e finanziando grandi opere, speculazioni edilizie, saccheggi vari del territorio, distruggendo biodiversità e suoli agricoli, con lo scorrere dei cronoprogrammi dei loro cantieri promessi alla lavagna di Porta a Porta, i rispettabili politici e lobbisti in doppiopetto hanno subito una metamorfosi che li ha trasformati in veri estremisti sovversivi, quasi sempre polemici e pronti ad alzare i toni della discussione. Se necessario anche usando il manganello…
Esagero? Mi pare proprio di no. Anzi possiamo affermare con pochi dati certi, che i veri nemici del benessere del paese e dei cittadini che lo abitano siano proprio loro. Loro che in un quarantennio hanno compromesso il futuro delle presenti e delle future generazioni.
Vediamo perché.
Che cosa è fondamentale per un popolo, per le persone che vivono su un determinato territorio? Che cosa è indispensabile alla sopravvivenza dei cittadini? Il cibo. E che cosa è accaduto al nostro paese? È accaduto che dal 1971 al 2010 ha perso 5 milioni di ettari di Superficie Agricola Utilizzata (SAU).
Questo dato è dovuto a due fenomeni: l’abbandono delle terre e la cementificazione.
Per la risoluzione del primo, la politica è completamente assente e non riesce, anzi non prova neanche, ad arginare la perdita di terreno del settore primario rispetto al mattone. Coltivare la terra rende sempre meno in termini di reddito ed è molto faticoso, nonostante la meccanizzazione. Una crisi che richiederebbe anche un cambio di modello di produzione, avviando una riconversione che emancipi il settore stesso dalla monocoltura intensiva aprendo nuove prospettive. Non solo in termini di produzione ma anche di occasioni per riprodurre comunità e socialità.
Per il secondo fenomeno, la cementificazione, la politica dominante, non solo non ha arginato il fenomeno irreversibile della impermeabilizzazione dei suoli, ma lo ha facilitato e promosso: approvando normative che hanno spinto i comuni a fare cassa con la monetizzazione del territorio, progettando e realizzando opere infrastrutturali che hanno accompagnato l’espansione urbanistica (lo sprawl), favorendo la rendita urbana ai danni della tutela del territorio, del paesaggio e dell’agricoltura, coltivando il consenso facile con gli oneri di urbanizzazione che arrivano grazie alle colate di cemento.
Per rendere bene l’idea di quello che è successo nel nostro paese ci possono aiutare due grafici tratti da un rapporto sul consumo di suolo agricolo a cura del Ministero delle Politiche Agricole.
Nel primo grafico si può vedere che a fronte di un aumento della popolazione, la superficie agricola utilizzata è diminuita (del 28% in 40 anni) e la forbice tende ad allargarsi:
In sostanza ci mancano 49 milioni di ettari per coprire il nostro intero fabbisogno che è pari a 61 milioni di ettari. Siamo destinati ad essere sempre più dipendenti dalla produzione di terreni di altri paesi.
Il buon senso del buon padre o madre di famiglia dovrebbe portarci a fermare per decreto ed immediatamente la cementificazione ed il consumo di suolo, a bonificare le aree compromesse dal cemento e dai veleni, ad incentivare seriamente il ritorno alla coltivazione delle terre abbandonate. Ma purtroppo il buon senso e l’interesse collettivo sono spesso in contraddizione con gli interessi dei pochi e soliti noti…
Ma oltre che della perduta sovranità alimentare, gli estremisti dirigenti del partito del cemento si sono resi protagonisti dell’alterazione e della sovversione di delicati equilibri ecosistemici. Alterazione condotta grazie alle loro azioni irriducibili, condotte talvolta nottetempo: mitici i consigli comunali alle 3 di notte per approvare varianti ai piani regolatori (nei quindici anni dal 1995 al 2009, i comuni italiani hanno rilasciato complessivamente permessi di costruire per 3,8 miliardi di mc). Le scelte di questi estremisti sono concausa certificata del dissesto idrogeologico e dello sprofondamento quotidiano del paese nel fango. Ma essi si ostinano quotidianamente a tenere la posizione, si oppongono in maniera davvero ideologica e radicale alle decine di proposte veramente moderate che presentiamo tutti i giorni.
Noi (ambientalisti, comitati, cittadini) chiediamo di investire le scarse risorse nella messa in sicurezza del territorio; loro ci rispondono arroganti che sono prioritari i buchi nelle montagne per portare merci a 300 km all’ora da Torino a Lione.
Noi proponiamo di incentivare il recupero degli immobili esistenti, rendendoli più efficienti dal punto di vista energetico, di puntare sul risanamento/ricostruzione dei centri storici abbandonati (a partire da L’Aquila, dove recentemente si sono recati 22 sindaci moderati della Val di Susa per chiedere di impiegare in quella città le risorse destinate al Tav); loro si impuntano con le newtown in aperta campagna, le cittadelle dello sport, della moda, del design.
Noi proponiamo di restaurare il paesaggio, di elaborare un grande piano nazionale di piccole opere, che aiuterebbe l’edilizia ad uscire dalla crisi (dall’abbattimento delle barriere architettoniche alla realizzazione di fognature, marciapiedi e piste ciclabili); loro ci rispondono polemicamente e strumentalmente con nuovi piani casa, nuovi grattacieli, nuovi grandi eventi e relative nuove grandi autostrade e nuovi grandi padiglioni.
Insomma, noi chiediamo di andare più piano; loro accelerano con sprezzo del pericolo, spingendo il vapore a tutta velocità verso le estreme conseguenze, verso il baratro. Degli irresponsabili.
Risultato di queste scelte scellerate portate avanti con tanta veemenza bipartisan? Secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per Protezione e la Ricerca Ambientale) ogni giorno vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali. 10 mq al secondo. Quindi cosa facciamo?
Dobbiamo fermarli. Non c’è alternativa. Perché sono dei veri sovversivi. I veri estremisti di questo paese.
da Eddyburg.it 7 dicembre 2013
717 Visite totali, nessuna visita odierna