
(La televisione ha una forza da leone)
La televisione, pessimo affare: dagli anni Ottanta ad oggi è stata capace di inghiottire gli ideali, propinarci tonnellate di anti-cultura e stroncare generazioni. Chi come me negli anni Ottanta ci è nato e cresciuto, sa a cosa mi riferisco: colori, giocattoli, benessere più ostentato che vissuto anche quand’era palpabile. La TV ci ha insegnato a inghiottire e divorare qualsiasi cosa purché si potesse consumare. Ci ha proposto modelli di perfezione inarrivabili, di plastica: donne che non sono donne se non sono maggiorate, meglio ancora se rifatte, e uomini che non valgono niente senza muscoli o senza un bel ferro pronto a far fuoco infilato nei jeans o nella fondina. Ma cosa ancora più difficile da digerire è che la televisione ci ha abituati a subire. Entertaining, intrattenimento, nella parola stessa c’è un programma intero, non televisivo: commerciale o, per chi teorizza complotti su larga scala, politico e di controllo sociale. Inchiodare lo spettatore per investirlo con un treno di consigli per gli acquisti, deformazione totale e ultima dello spirito umano.
L’abitudine alla passività trova un forte riscontro nel deterioramento della vita personale, sociale, politica e professionale di oggi. Bande di automi, persi ogni giorno tra una valanga di merci e servizi da consumare, aspettano in metrò di subire la vita. Subire il lavoro sia esso fisso o disgraziatamente precario, subire i rapporti diluiti nella routine, subire la frustrazione costante per la quale si è consci, che un altro mondo è possibile ma nulla cambia. Subire le chiacchiere dell’informazione sempre più manipolata e insignificante, subire i colori e i suoni di ogni dannata pubblicità.
Milano è uno specchio fin troppo nitido della situazione. Tanto si ostenta il benessere secondo i diktat di qualche omuncolo delle griffe della moda, tanto si trasuda il vuoto interno che divora ognuno. Divisi continueremo a subire.
Se al fenomeno televisivo associamo quello dell’inadeguatezza della classe politica passata e presente di questo paese, non resta che mettere le mani sugli occhi e coprirsi il volto, quasi a oscurare la vista di un ferito agonizzante dilaniato da una mina anti-uomo: l’Italia, il paese del sole, della cultura e dell’arte, abbandonato alle grinfie di un manipolo di furbi e miopi, uomini piccoli nelle idee e nelle ambizioni.
Ecco perché tanta demagogia da parte dei politici e tanta indignazione da parte di Marco (vedi il suo ultimo articolo). Non conosco bene Letta da poterne parlare male, però non ho alcun problema a credere, che si sia comportato esattamente come se fosse stato un qualsiasi altro democristiano dall’altro lato della barricata. Sicurezza e libertà. La sicurezza è lo spauracchio che si agita quando non si ha altro da dire. Sicurezza da cosa? Dal contatto? O sicurezza dal diverso? O sicurezza per arrivare a casa e subire la tv? La sicurezza non la garantiscono le divise, tanto meno i vigili di quartiere. La sicurezza è figlia della pace e della giustizia sociale. Non è necessario imporre la Trabant a tutti quanti perché questo avvenga: è necessario ricominciare a vivere la cosa pubblica come patrimonio personale e collettivo. Se qualcuno ha interesse a tenere gli individui divisi e separati con i muri, con le cortine, con gli schermi, con le telecamere non è certo per garantirne la sicurezza, ma per garantirne la fedeltà e obbedienza, ovvero l’abitudine a subire.
Se la rete umana prima e digitale poi, i blog, le fanzine indipendenti e in genere le associazioni di persone possono convogliare in qualche modo la forza di un movimento, di persone, di idee, allora forse queste parole rimarranno solo come un brutto ricordo.
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